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Dettato sì o dettato no?

IMG_3461Il dettato è una delle pratiche didattiche più resistenti nella scuola primaria di lingua italiana. Oggi, come ieri, la maggior parte dei docenti detta; è un dato di fatto. Ma i pareri circa l’utilità del dettato sono anche molto discordanti. E a volte manca una vera consapevolezza riguardo al suo utilizzo.

Già, a che cosa serve il dettato? Molti pensano che serva a imparare a scrivere; molti altri a imparare l’ortografia; qualcuno pensa che non serva a niente di tutto ciò, e che in fin dei conti sia soltanto una tortura alla quale vengono sottoposti milioni di bambini, senza possibilità di scampo.

E allora, di fronte a questi dubbi, a questi pareri discordanti, la cosa migliore da fare è mettersi a studiare vizi e virtù di questa pratica didattica in modo rigoroso e scientifico, per sgombrare il campo da equivoci e luoghi comuni. Come ha fatto Elisa Farina, insegnante di sostegno nella Scuola primaria che ha conseguito il dottorato in Scienze della Formazione e della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ateneo presso il quale collabora. I risultati della sua lunga ricerca sono illustrati nel volume Il dettato nella scuola primaria. Analisi di una pratica di insegnamento, edito dalla FrancoAngeli nel 2014. Una lettura obbligata per ogni docente di scuola primaria.

Che cosa ci dice Elisa Farina, nel suo lavoro? Tante e utili cose, a partire da ciò che avviene in classe quando si detta: ad esempio, che cosa fanno i bambini, che cosa fanno i docenti, in che modo dettano, in che modo danno “istruzioni” (consapevolmente o inconsapevolmente) agli allievi, e quali effetti hanno queste istruzioni sui bambini stessi. E, di conseguenza, ci dice quali regolazioni andrebbero messe in pratica perché il dettato serva davvero a qualcosa.

La mia opinione è sostanzialmente in linea con quella di Elisa Farina, soprattutto quando chiarisce che, per essere efficace, il dettato non dovrebbe essere inteso e praticato solo in senso tradizionale, ma in una molteplicità di varianti (molte delle quali descritte nelle pagine del suo libro) molto più coinvolgenti e cariche di senso rispetto alla sola che molti conoscono. Qualche esempio? Dettare brani estratti dai libri di lettura, dettare un riassunto delle cose apprese alla fine della lezione, dettare all’adulto (invertendo i ruoli), dettare (perché no?) la lista delle cose da fare, o della spesa, o le regole di un gioco, o gli ingredienti di una ricetta, dettare di corsa, dettare i compiti, dettare domande da trasformare in affermazioni, e tanto altro ancora…

E sono allineato con lei ancor più quando scrive che l’insegnamento dell’ortografia può trovare la sua piena e migliore realizzazione quando è inserito nel più vasto tema dell’apprendimento della lingua scritta, e in particolare nella fase cruciale della revisione del testo, che da sempre è uno dei processi della scrittura più trascurati a scuola, e che invece andrebbe collocato ai primissimi posti delle preoccupazioni dei docenti.

Per saperne di più, ovviamente, non posso che rinviare alla lettura dell’ottimo libro, concludendo che, a mio parere, il dettato ha ancora ragion d’essere nella scuola primaria del terzo millennio, a patto che sia usato in modo consapevole e in forme e modalità diverse da quella tradizionale, il cui ricorso andrebbe limitato a non troppo insistenti momenti di verifica (sempre che non si detti sillabando o comunque con intonazioni che suggeriscano ai bambini i luoghi di difficoltà).

In questo modo, il dettato può diventare un prezioso alleato per l’apprendimento, liberandosi dalla zavorra che si porta dietro da decenni: quella che lo associa al terrore per l’errore commesso. I bambini che imparano a scrivere devono sapere che si può (e si deve anche) sbagliare, perché solo sbagliando si diventa consapevoli delle mille sfaccettature di questa complicata lingua italiana. In fondo, è ciò che ci ha insegnato Gianni Rodari, con la sua teoria dell’errore creativo: l’errore può essere bello (come la torre di Pisa!).

Una caccia al tesoro con gli anagrammi

IMG_3141A partire da alcuni spunti presenti nel libro di Simone Fornara e Francesco Giudici Giocare con le parole, ecco una proposta di attività didattica (veloce e di sicura efficacia) per la scuola elementare: una caccia al tesoro con gli anagrammi!

Si tratta di preparare una serie di cartellini con scritta, su ciascuno di essi, una parola o un’espressione ricavata dall’anagramma del nome di un oggetto presente nell’aula scolastica. Ad esempio, astuccio potrebbe diventare ciucasto (se si vogliono creare anagrammi senza senso), oppure, e meglio ancora, acustico (se si vogliono creare parole di senso compiuto); la maestra potrebbe diventare colei che sa trame;  la lavagna potrebbe trasformarsi in una innocua valanga, e via di seguito.

Basteranno una decina di cartellini (come quelli che potete scaricare da qui, già pronti per l’uso: basta ritagliarli) da inserire in una busta. Se ne estrae uno, e si chiede ai bambini, suddivisi in tre o quattro squadre, di indovinare l’oggetto in questione, andando ad appenderci sopra, con un po’ di scotch, il cartellino corrispondente.

Variante: preparare quattro buste, contenenti ciascuna gli stessi dieci cartellini, stampati magari su cartoncini di colore diverso (ogni colore identifica una squadra). Vince la squadra che per prima appende il cartellino sull’oggetto giusto. In questo caso, è bene dare lo stesso cartellino a tutte le squadre, stabilendo un tempo limite entro il quale proporre la propria soluzione. Possibile assegnare punti alle squadre (ad esempio, tre punti a chi indovina per primo; un punto alle altre squadre che indovinano comunque la soluzione; zero punti alle squadre che sbagliano).

Noi, alle scuole comunali di Gordola (in Canton Ticino) ci abbiamo provato, con gli allievi delle due terze, ed è stato divertente vedere la maestra aggirarsi per l’aula con appiccicati sulla schiena quattro bigliettini di colore diverso, tutti con la scritta sa trame. Ma ci siamo divertiti anche a mettere in difficoltà i bambini, con l’enigmatico anagramma finta scarpa in lego… che cosa sarà mai?

 

Alla scoperta delle lettere con Bruno Munari

IMG_1630_ridTra i tanti libri di Bruno Munari che meritano di essere riscoperti o riportati sui banchi di scuola o sui tavoli dell’asilo, un posto di tutto rilievo spetta senza dubbio al suo Alfabetiere, uno snello libretto che ha una lunga storia editoriale: pubblicato per la prima volta nel 1960 dalla Einaudi, riproposto nel 1972 nella collana Tanti Bambini, è uscito infine per Corraini di Modena nel 1998, che lo ha ristampato per l’ottava volta nel 2014. Da oltre cinquant’anni, dunque, le lettere di Bruno Munari e le sue strampalate filastrocche (fatte di parole che iniziano con la lettera di volta in volta illustrata) accompagnano i piccoli lettori alla scoperta dell’alfabeto.

Sugli utilizzi didattici cui si presta meravigliosamente questo libro non c’è modo migliore che ripercorrere le parole stesse dell’autore nella premessa scritta a mo’ di lettera per i genitori (ma il suggerimento è di leggerla per intero, aprendo la copertina del volumetto). Una premessa che a ogni riga lascia trapelare non solo la grande passione di Munari per il suo mestiere di artista-scrittore, ma anche la perizia pedagogica con la quale pensava e realizzava le sue opere. Nulla è lasciato al caso, dalla sequenza con cui sono proposte le lettere, che seguono quello che negli anni Sessanta era ritenuto l’ordine di apprendimento (secondo il grado di difficoltà); fino alla scelta dei caratteri, ritagliati da giornali e riviste allo scopo di mostrare al bambino che una stessa lettera può assumere infinite forme diverse, superando così i limiti degli abbecedari tradizionali; passando per la selezione delle parole che rendono così efficaci e musicali le filastrocche, studiate proprio per avvicinare gli orecchi bambini alla sonorità della nostra lingua.

E ancora Munari dà le dritte giuste per mettersi al lavoro, poiché il suo Alfabetiere è un libro aperto, che il giovane esploratore dell’alfabeto può completare a piacimento:

il bambino può intervenire continuando a incollare nelle pagine le lettere dell’alfabeto che avrà prima scelto e ritagliato da vecchie riviste, così come io ho cominciato a modo di esempio. Sarà per lui come andare a caccia di insetti tra l’erba di un prato facendo attenzione di non confondere formiche con cavallette.

Quando l’inconscio infantile entrò negli albi illustrati

sendak_nel-paese-dei-mostri-selvaggiMaurice Sendak (USA, 1928-2012), scrittore e illustratore, ha pubblicato quello che è considerato il suo capolavoro (Nel paese dei mostri selvaggi, il cui titolo originale è Where the Wild Things Are) nel 1963. Di sé diceva: «I don’t write for children. I don’t write for adults. I just write.» Come dargli torto? Impossibile, perché è senz’altro vero che la scrittura, i libri, anche quelli etichettati di solito “per bambini”, quando sono scritti bene, parlano a tutti, indipendentemente dall’età.

Ed è così per il suo più noto albo illustrato, Nel paese dei mostri selvaggi (Babalibri, 2011), appunto, che rivoluzionò il mondo dei picture book, sancendo l’ingresso in questo genere narrativo dell’inconscio infantile. Il suo libro contribuì in modo decisivo a rompere gli schemi tradizionali della letteratura per l’infanzia: non più storie solamente edificanti, con insegnamenti morali espliciti, il più delle volte tese a dimostrare che i comportamenti “cattivi” vanno incontro a punizioni e quelli “buoni” ai giusti premi, ma storie “divergenti”, in cui i protagonisti fanno ciò che non bisognerebbe fare e anche attraverso la trasgressione arrivano a crescere.

Il protagonista del libro è Max, un ragazzino che ne combina tutti i colori, fino a rivoltarsi contro la madre, che gli infligge la classica punizione dell’“A letto senza cena!”. Ma è proprio da questa punizione che Max parte per un viaggio immaginario che dalla sua cameretta chiusa e desolata lo porta in un mondo aperto e trasgressivo, in cui diventa il re dei mostri selvaggi, creature affamate e demoniache che, come lui, ne combinano di tutti i colori. Per poi avvertire la nostalgia di casa, e iniziare un lento cammino a ritroso, che lo riporta nella sua cameretta dove, ora, aleggia nell’aria un buon profumo di cibo. Un vero percorso di crescita che si compie nello spazio onirico di una notte, e che viene magistralmente raccontato dall’arte di Sendak, che combina perfettamente il testo alle immagini: si pensi ai disegni dapprima racchiusi in riquadri (quando Max è “recluso” in camera), e poi “esplosi” sulle due pagine, senza testo, nel momento in cui il bambino, divenuto re di questo mondo onirico, scatena la ridda selvaggia e balla danze sfrenate, liberatorie e bestiali insieme ai mostri che lo venerano appunto come il loro sovrano.

Un testo affascinante, che non ha smesso di parlare neppure oggi, a cinquant’anni dalla sua prima edizione, e che si presta ad accese discussioni in classe sulle paure segrete dei bambini e sulle loro piccole e grandi trasgressioni.

Cliccando qui, è possibile scaricare un’attività didattica per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria.

Un’enciclopedia fantastica o una fantastica enciclopedia?

2015_enciclopedia_fantIl 25 febbraio del 2015 (si vedano gli articoli del «Corriere del Ticino» e «La Regione Ticino») è stato assegnato il premio Lions Club Lugano-Ceresio a un mio ex studente, Mario Alfieri, per il miglior lavoro di diploma della formazione Bachelor del DFA della SUPSI per l’insegnamento nella scuola elementare (anno 2013-14).

La notizia merita di essere approfondita, perché il progetto realizzato da Mario è un ottimo esempio di didattica progettuale, portata avanti con il rigore della ricerca scientifica e coniugata in modo molto efficace con le esigenze di insegnamento e apprendimento dei bambini di scuola elementare.

Mario ha proposto ai bambini di una quinta elementare di Biasca (Canton Ticino) la realizzazione di un’enciclopedia fantastica di classe, sul modello di alcuni fortunati libri pubblicati negli anni passati da noti scrittori italiani, come Stranalandia di Stefano Benni, Scuola Foresta di Stefano Bordiglioni e Zoovocabolario di Gualtiero Bordiglioni. I bambini, motivati da questa prospettiva, hanno lavorato con entusiasmo e impegno per capire i segreti del testo descrittivo, nel genere specifico della voce enciclopedica (reale prima e fantastica poi).

Ecco ad esempio il Piedipalopade inventato, descritto e disegnato da Luca:

2015_piedipalopadeIl piedipalopade è un animale aggressivo.

Ha 6 facce, una su ogni dita del piede e una sulla caviglia. La superficie della caviglia è piatta e rotonda. Il suo naso è come quello di un maiale. Ha la bocca sdentata.

Vive nei relitti che sono sulla spiaggia. Mangia solo cani e gatti e li uccide con un grido che emette dalla bocca più grande.

Il piedipalopade corteggia la femmina facendo uscire una musica dalle bocche più piccole e danzando con lei.  È il maschio che partorisce i piccoli, che quando nascono sono grandi come un tubetto di colla e sono ciechi. Questo animale è protetto perché è a rischio d’estinzione: ce ne sono solo 100 nel mondo. Le specie simili sono il piedicello e la spiedatessa.

Il risultato, una bella pubblicazione stampata grazie alla tecnologia digitale, è solo il punto finale di un percorso durante il quale i bambini hanno analizzato voci enciclopediche già scritte alla scoperta delle unità informative che le compongono, per ricavare una struttura testuale da prendere a modello: in altre parole, prima si capisce il testo, smontandolo e rimontandolo, per costruirne uno scheletro; e poi si scrive un nuovo testo usando proprio lo scheletro individuato come guida e supporto. Parallelamente, grande attenzione è stata dedicata all’arricchimento lessicale (in particolare relativo a sostantivi e aggettivi), perché senza parole (precise, belle, appropriate) non si possono scrivere belle descrizioni.

Insomma, con competenza, entusiasmo e impegno è davvero possibile aiutare i bambini a costruire competenze di scrittura avanzate, con grande soddisfazione di tutti (dei bambini, soprattutto, ma anche degli adulti che li seguono), promuovendo nello stesso tempo il piacere di leggere buoni libri. Come dire: dal piacere di leggere al piacere di scrivere.

E proprio a proposito di libri, ecco la ciliegina sulla torta: i commenti dei fratelli Bordiglioni che, con grande cortesia e disponibilità, hanno inviato alcune loro considerazioni sul lavoro svolto dai bambini di Biasca.

Cliccando qui, è possibile scaricare l’abstract, la sintesi o l’intero lavoro di diploma di Mario Alfieri (documenti da consultare nel pieno rispetto delle norme che regolano i diritti d’autore).

 

Tararì tararera…

tarari_tararera_introNel settore degli albi illustrati, uno dei più grandi capolavori degli ultimi anni è senza dubbio Tararì tararera… di Emanuela Bussolati (Carthusia, 2009). Le immagini e le parole (entrambe dell’autrice) creano insieme una storia unica nel suo genere. La particolarità del libro è data, infatti, dall’essere scritto in una lingua inventata, una sorta di non-lingua (la lingua Piripù), che però, se letta in modo espressivo e dopo un’accurata preparazione, diventa chiarissima nel suo significato, combinandosi appunto con le illustrazioni.

Tararì tararera… è il primo libro di una collana (La biblioteca di Piripù), che al momento conta altri due titoli, Badabùm e Rulba rulba, che ne mantengono inalterato il fascino. La bravura straordinaria dell’autrice è stata quella di giocare con le formule tipiche delle storia (come il “c’era una volta” iniziale) e le componenti tradizionali (come la presentazione dei personaggi con il loro nome), traducendole però nella sua lingua inventata. Ad esempio, la pagina iniziale del racconto suona così:

Tararì tararera… sesa terù di Piripù: Piripù Pà, Piripù Ma, Piripù Sò, Piripù Bé e Piripù Bibi.

E può essere tradotta più o meno con queste “nostre” parole:

C’era una volta… la famiglia dei Piripù: papà Piripù, mamma Piripù, la sorella Piripù, la bimba Piripù e il piccolo Piripù.

Ovviamente il significato si ricostruisce, come detto, abbinando le parole alle immagini, con il contributo decisivo delle dimensioni dei caratteri che, nell’esempio appena riportato, si collegano facilmente ai personaggi: il nome del papà Piripù, che è anche il personaggio più grande, è scritto con lettere più grandi, mentre quello del piccolo Piripù, che è il personaggio più piccolo, con i caratteri più piccoli. E il lettore-attore accorto saprà creare delle significative corrispondenze tra le dimensioni dei caratteri e l’intonazione della voce.

La forza del libro sta anche e soprattutto nel linguaggio che diventa universale: non c’è bisogno di traduzioni in altre lingue reali perché possa essere letto e apprezzato da bambini di tutto il mondo. Su YuoTube, potete ad esempio vedere con i vostri occhi quali sono le divertite reazioni dei bambini di un villaggio africano di fronte a una lettura espressiva del testo.

Gli impieghi didattici sono moltissimi, dall’oralità alla scrittura: può essere ad esempio utile e molto divertente chiedere ai bambini di ri-raccontare la storia con loro parole, sia in forma orale (con i più piccoli), sia in forma scritta (con i più grandi), con la guida delle immagini. Premessa indispensabile per la buona riuscita di qualsivoglia attività è la lettura del docente: si tratta di una lettura impegnativa, per niente facile, che richiede preparazione ed esercizio, e che andrebbe supportata da mimica e gestualità, e dal costante dialogo fisico con il libro, le cui immagini e parole vanno indicate in concomitanza con la lettura, per rendere più chiara e immediata l’interpretazione dei bambini. Importante, infine, la predisposizione di un ambiente d’ascolto ideale, che assicuri a tutti la possibilità di vedere il lettore e il libro senza distrazioni.

Tararì tararera… ha vinto il Super Premio Andersen nel 2010 come libro dell’anno.

Cliccando qui potete scaricare una serie di idee per percorsi didattici per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria a partire dalla lettura del libro.

Quando due macchie fanno una storia

Inauguro oggi una nuova categoria di articoli del mio blog dedicata ai libri. Si tratta di rapide riflessioni su libri e letture, in particolare sugli albi illustrati (ma non solo), con qualche proposta di attività didattiche per diversi ordini scolastici. L’auspicio è che queste mie segnalazioni possano servire a qualche docente alla ricerca di nuovi stimoli per trasmettere il piacere di leggere e di lavorare su testi d’autore. Bei testi, dunque, che vale la pena di (ri)portare sui banchi.

E iniziamo con uno dei più grandi classici del genere, a partire da una domanda: è possibile che da due macchie di colore nasca una storia? La risposta è che sì, è davvero possibile. A patto che chi l’ha pensata, questa storia, sia un autore geniale e molto creativo, come Leo Lionni (Olanda, 1910 – Italia, 1999), pittore, grafico, scrittore, scultore e infine instancabile illustratore di libri per bambini. Tanti, infatti sono i titoli che può vantare la sua stimolante produzione per l’infanzia, pubblicata in Italia dalla casa editrice Babalibri di Bologna (una delle più attente alla qualità del libro illustrato per ragazzi, e non solo alle leggi del mercato). Per saperne di più sulla sua vita e sulla sua opera, vale la pena di visitare la pagina http://www.randomhouse.com/kids/lionni/aboutlionni.php e quella a lui dedicata dall’editore Babalibri (http://www.babalibri.it/dettaglio.asp?col=2&id=39#per) dalla quale traggo questa bella citazione:

Di tutte le domande che mi sono state rivolte come autore di libri per bambini, la più frequente senza dubbio è: “come vengono le idee?” Molte persone sembrano credere che il modo in cui si ottiene un’idea sia allo stesso tempo misterioso e semplice. Misterioso, perché l’ispirazione si pensa provocata da un particolare stato di grazia concessa solo alle anime più fortunate. Semplice perché si crede che le idee caschino dentro la testa, già tradotte in parole e immagini, pronte per essere trascritte e copiate sotto forma di libro con tanto di pagine finali e copertina. Niente è più lontano dal vero. Talvolta, dall’infinito flusso della nostra fantasia, all’improvviso emerge qualcosa di inaspettato che, per quanto vago possa essere, sembra contenere una forma, un significato e, più importante, un’irresistibile carica poetica. Il senso di fulmineo riconoscimento grazie al quale trasciniamo questa immagine fino alla piena consapevolezza, rappresenta l’impulso iniziale di tutti gli atti creativi… Altre volte, devo ammetterlo, la creazione di un libro si trova nell’improvvisa e inspiegabile voglia di disegnare un certo tipo di coccodrillo.

Il caso delle macchie di colore è uno dei più lampanti esempi del suo genio, capace di collocare il suo punto di vista all’altezza degli occhi del giovane lettore, per guardare le cose con uno stupore ingenuo e ancora incontaminato. Il libro si intitola Piccolo blu e piccolo giallo (Babalibri, 1999), ed è la storia di due amici che si incontrano e diventano tutt’uno nella loro grande amicizia. Una storia che diventa un’esperienza di lettura unica nel suo genere, soprattutto quando si ha l’occasione di accompagnare un bambino in questo piccolo viaggio della fantasia.

Ed è proprio scorrendo le pagine insieme a un lettore non ancora lettore (o a un lettore alle prese con i suoi primi incontri con la pagina scritta e illustrata) che si può apprezzare appieno l’idea e la realizzazione: le macchie che a noi adulti troppo razionali possono sembrare indistinte non impiegano neppure qualche secondo per pulsare della vita immaginata dei due amici Piccolo Blu e Piccolo Giallo e delle loro famiglie. Le macchie diventano persone (il papà è la macchia grande, la mamma è la macchia media, il bambino è la macchia piccola), case, aule scolastiche, siepi, alberi, montagne; gli atteggiamenti delle macchie si trasformano in posture dei corpi, in gesti di accoglienza o di allontanamento, così forti da portare l’amico macchia a sgretolarsi in minute lacrime di colore e dolore. Fino all’allegra e rasserenante fusione di colori finale.

E alla fine, quasi senza accorgersene, il piccolo lettore e l’adulto che l’accompagna scoprono insieme che basta poco per parlare dell’amicizia, della solitudine e dell’amore.

Sugli utilizzi in classe di questo piccolo capolavoro ci sarebbe molto da dire, ma mi limiterò a una rapida suggestione: a prima vista adatto solo a bambini molto piccoli (scuola dell’infanzia), rivela invece, a un esame accorto e approfondito, universi di senso che lo rendono per nulla banale anche con i più grandi (scuola primaria), magari combinando le attività di ascolto con quelle di scrittura e manipolazione del testo.

Piccolo giallo e piccolo blu ha vinto il premio Andersen 2001.

Cliccando qui è possibile scaricare un esempio di attività per la scuola dell’infanzia.