Kung Fu Panda e i censori del terzo millennio

Illustrazione di Doriano Solinas per il «Corriere del Ticino»
Illustrazione di Doriano Solinas per il «Corriere del Ticino»

Dalla rubrica Narrativa per ragazzi del «Corriere del Ticino» (02.04.2016, p. 32):

Negli ultimi tempi non è raro imbattersi in notizie che associano le narrazioni per ragazzi al problema della censura: libri, film di animazione e persino iniziative che promuovono il piacere di leggere nelle nuove generazioni diventano oggetto di condanna. Il caso più recente è il film Kung Fu Panda 3: in Italia, una gita scolastica con destinazione cinema è stata bloccata da alcuni genitori che ritenevano pericolosa la visione del terzo episodio della saga del panda per i loro pargoli. Il motivo? Leggiamo che cosa ha scritto su Facebook il giornalista Mario Adinolfi, tra i promotori del Family Day e del movimento politico Il Popolo della Famiglia: “Volete capire come si fa il lavaggio del cervello gender ai bambini? Ad esempio con il protagonista di Kung Fu Panda che ha due papà”. Uno biologico e uno adottivo.

Dettaglio non di poco conto, Adinolfi ha però mancato di chiarire qual è la vera storia delle due figure paterne del panda Po: nel primo episodio della saga (2008), Po compariva come figlio adottivo di Mr Ping, un’oca maschio; nel secondo episodio (2011), veniva chiarito che Mr Ping aveva ritrovato Po in una cesta, in quanto i suoi genitori erano stati costretti ad abbandonarlo per salvarlo da morte certa; nel terzo episodio, Po ritrova il suo vero padre, che diventa amico di Mr Ping. Alla faccia del complotto gender! Seguendo la visione di Adinolfi dovremmo dunque ipotizzare che i produttori avessero in previsione di lavare il cervello dei bambini sin dal 2008, cioè quando ancora nessuno parlava di teoria gender come si fa oggi.

La vicenda riporta alla mente quella analoga aperta circa un anno fa dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che aveva proscritto una lista di 49 albi illustrati per l’infanzia rei di divulgare la teoria gender nelle scuole del territorio veneziano, scatenando il cieco ossequio di chi lo acclamò come un educatore illuminato senza conoscere i libri oggetto di censura. Tra i quali, ad esempio, spiccava un classico come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scritto nel 1959 e lontano anni luce da qualsivoglia contenuto gender vero o presunto.

Inoltre, queste posizioni estremistiche sembrano del tutto ignorare che le storie sono figlie dei tempi in cui vengono narrate. Forse non tutti sanno, ad esempio, che la versione di Cappuccetto Rosso che siamo abituati a raccontare ai bambini è solo una delle centinaia che si sono susseguite nel corso della storia (sulle quali si veda il libro di Yvonne Verdier L’ago e la spilla. Le versioni dimenticate di Cappuccetto Rosso, Bologna, Edizioni Dehoniane). E forse pochi ricordano che la sua prima versione letteraria, scritta nel 1697 da Charles Parrault, raccontava la storia di uno stupro senza lieto fine, giacché Cappuccetto Rosso finiva nuda nel letto del lupo, per non uscirne mai più (furono i Grimm, nel 1812, a introdurre il cacciatore). Scandalizzati? E che dire allora della morale in versi che chiudeva la storia, nella quale la ragazzina veniva additata come la sola responsabile delle sue sventure? Scandalizziamoci pure, ma ai tempi in cui fu scritta, la società non era certo quella di oggi: androcentrica, non si azzardava a concedere alla giovani fanciulle neppure il lusso di uscire dal focolare domestico.

Traduciamo lo scandalo ai giorni nostri: piaccia o no, la società odierna non è popolata solo da famiglie tradizionali; il concetto di famiglia si è aggiornato, e famiglie che un tempo venivano considerate alternative ora non sono più una rarità. Anzi, è proprio la famiglia tradizionale a mostrare crepe profonde e scricchiolii preoccupanti. Che la famiglia “allargata” entri nelle narrazioni (anche se, abbiamo visto, non è questo il caso del panda Po) è quindi del tutto naturale, perché le storie riflettono la vita. A meno che si voglia nascondere la realtà sotto il drappo dell’ipocrisia.

Che cosa significa dunque il riemergere della censura? Una sola cosa, purtroppo, e la storia lo insegna: quando si bruciano libri o pellicole cinematografiche la democrazia vacilla, è in crisi.

Ma c’è un altro aspetto di cui poco si parla e che è grave tanto quanto la censura, se non ancor di più: chi vorrebbe incenerire le narrazioni per ragazzi manifesta in modo lampante la scarsa fiducia nelle nuove generazioni. Pensare che un bambino elabori il proprio concetto di famiglia sulle vicende del panda Po significa non sapere nulla della psicologia infantile. Bisognerebbe spiegare ai censori del terzo millennio che dalle storie il bambino può semmai far suo il senso dell’amore, e che l’amore è indipendente dal genere di chi ne è portatore; e che le storie ci parlano non tanto per il loro intreccio, ma perché riproducono la struttura narrativa della vita; ci parlano perché ci allenano a vivere, attraverso lo schermo protettivo della finzione. Il problema vero non è ciò che il bambino vede nel cartone animato, ma ciò che vede e vive ogni giorno, dentro e fuori le mura di casa. E allora che ci si preoccupi delle famiglie reali, della loro disgregazione, dell’assenza o dell’inconsistenza di certe figure paterne e materne (indipendentemente dal loro genere biologico), dello smaterializzarsi dei rapporti umani nelle reti virtuali in cui siamo immersi.

Ma lasciamo che siano i bambini a giudicare le storie. E, soprattutto, lasciamo che le storie accompagnino le loro vite: togliendo loro le narrazioni finiremmo per privarli di una delle più formidabili palestre di formazione che l’ingegno umano ha prodotto nel corso dei millenni.

Cliccando qui è possibile scaricare il pdf dell’articolo pubblicato sul «Corriere del Ticino».

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