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Ancora su albi illustrati e censura: un articolo sulla rivista «gender / sexuality / italy»

2016_gsiIl 2016 si chiude con una mia nuova pubblicazione su un tema di  cui ho già avuto modo di discutere: la censura degli albi illustrati accusati di promuovere la presunta “teoria gender” dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

In questa occasione, però, ho modo di approfondire l’argomento proponendo un’analisi rigorosa dei libri inseriti nella “lista Brugnaro” e delle derive di questo tipo di iniziative, smascherandone (credo) la contradditorietà e l’incoerenza con gli scopi educativi dichiarati.

L’articolo, intitolato Nessuno tocchi Guizzino. Gli albi illustrati in Italia tra “teoria gender”, false interpretazioni e censura, è stato pubblicato sul numero 3 (2016) dalla rivista americana gender / sexuality / italy (GSI), ed è disponibile in pdf a questo link.

Buona lettura e, con l’occasione, un sincero augurio di un ottimo 2017 libero da pregiudizi!

 

Kung Fu Panda e i censori del terzo millennio

Illustrazione di Doriano Solinas per il «Corriere del Ticino»
Illustrazione di Doriano Solinas per il «Corriere del Ticino»

Dalla rubrica Narrativa per ragazzi del «Corriere del Ticino» (02.04.2016, p. 32):

Negli ultimi tempi non è raro imbattersi in notizie che associano le narrazioni per ragazzi al problema della censura: libri, film di animazione e persino iniziative che promuovono il piacere di leggere nelle nuove generazioni diventano oggetto di condanna. Il caso più recente è il film Kung Fu Panda 3: in Italia, una gita scolastica con destinazione cinema è stata bloccata da alcuni genitori che ritenevano pericolosa la visione del terzo episodio della saga del panda per i loro pargoli. Il motivo? Leggiamo che cosa ha scritto su Facebook il giornalista Mario Adinolfi, tra i promotori del Family Day e del movimento politico Il Popolo della Famiglia: “Volete capire come si fa il lavaggio del cervello gender ai bambini? Ad esempio con il protagonista di Kung Fu Panda che ha due papà”. Uno biologico e uno adottivo.

Dettaglio non di poco conto, Adinolfi ha però mancato di chiarire qual è la vera storia delle due figure paterne del panda Po: nel primo episodio della saga (2008), Po compariva come figlio adottivo di Mr Ping, un’oca maschio; nel secondo episodio (2011), veniva chiarito che Mr Ping aveva ritrovato Po in una cesta, in quanto i suoi genitori erano stati costretti ad abbandonarlo per salvarlo da morte certa; nel terzo episodio, Po ritrova il suo vero padre, che diventa amico di Mr Ping. Alla faccia del complotto gender! Seguendo la visione di Adinolfi dovremmo dunque ipotizzare che i produttori avessero in previsione di lavare il cervello dei bambini sin dal 2008, cioè quando ancora nessuno parlava di teoria gender come si fa oggi.

La vicenda riporta alla mente quella analoga aperta circa un anno fa dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che aveva proscritto una lista di 49 albi illustrati per l’infanzia rei di divulgare la teoria gender nelle scuole del territorio veneziano, scatenando il cieco ossequio di chi lo acclamò come un educatore illuminato senza conoscere i libri oggetto di censura. Tra i quali, ad esempio, spiccava un classico come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scritto nel 1959 e lontano anni luce da qualsivoglia contenuto gender vero o presunto.

Inoltre, queste posizioni estremistiche sembrano del tutto ignorare che le storie sono figlie dei tempi in cui vengono narrate. Forse non tutti sanno, ad esempio, che la versione di Cappuccetto Rosso che siamo abituati a raccontare ai bambini è solo una delle centinaia che si sono susseguite nel corso della storia (sulle quali si veda il libro di Yvonne Verdier L’ago e la spilla. Le versioni dimenticate di Cappuccetto Rosso, Bologna, Edizioni Dehoniane). E forse pochi ricordano che la sua prima versione letteraria, scritta nel 1697 da Charles Parrault, raccontava la storia di uno stupro senza lieto fine, giacché Cappuccetto Rosso finiva nuda nel letto del lupo, per non uscirne mai più (furono i Grimm, nel 1812, a introdurre il cacciatore). Scandalizzati? E che dire allora della morale in versi che chiudeva la storia, nella quale la ragazzina veniva additata come la sola responsabile delle sue sventure? Scandalizziamoci pure, ma ai tempi in cui fu scritta, la società non era certo quella di oggi: androcentrica, non si azzardava a concedere alla giovani fanciulle neppure il lusso di uscire dal focolare domestico.

Traduciamo lo scandalo ai giorni nostri: piaccia o no, la società odierna non è popolata solo da famiglie tradizionali; il concetto di famiglia si è aggiornato, e famiglie che un tempo venivano considerate alternative ora non sono più una rarità. Anzi, è proprio la famiglia tradizionale a mostrare crepe profonde e scricchiolii preoccupanti. Che la famiglia “allargata” entri nelle narrazioni (anche se, abbiamo visto, non è questo il caso del panda Po) è quindi del tutto naturale, perché le storie riflettono la vita. A meno che si voglia nascondere la realtà sotto il drappo dell’ipocrisia.

Che cosa significa dunque il riemergere della censura? Una sola cosa, purtroppo, e la storia lo insegna: quando si bruciano libri o pellicole cinematografiche la democrazia vacilla, è in crisi.

Ma c’è un altro aspetto di cui poco si parla e che è grave tanto quanto la censura, se non ancor di più: chi vorrebbe incenerire le narrazioni per ragazzi manifesta in modo lampante la scarsa fiducia nelle nuove generazioni. Pensare che un bambino elabori il proprio concetto di famiglia sulle vicende del panda Po significa non sapere nulla della psicologia infantile. Bisognerebbe spiegare ai censori del terzo millennio che dalle storie il bambino può semmai far suo il senso dell’amore, e che l’amore è indipendente dal genere di chi ne è portatore; e che le storie ci parlano non tanto per il loro intreccio, ma perché riproducono la struttura narrativa della vita; ci parlano perché ci allenano a vivere, attraverso lo schermo protettivo della finzione. Il problema vero non è ciò che il bambino vede nel cartone animato, ma ciò che vede e vive ogni giorno, dentro e fuori le mura di casa. E allora che ci si preoccupi delle famiglie reali, della loro disgregazione, dell’assenza o dell’inconsistenza di certe figure paterne e materne (indipendentemente dal loro genere biologico), dello smaterializzarsi dei rapporti umani nelle reti virtuali in cui siamo immersi.

Ma lasciamo che siano i bambini a giudicare le storie. E, soprattutto, lasciamo che le storie accompagnino le loro vite: togliendo loro le narrazioni finiremmo per privarli di una delle più formidabili palestre di formazione che l’ingegno umano ha prodotto nel corso dei millenni.

Cliccando qui è possibile scaricare il pdf dell’articolo pubblicato sul «Corriere del Ticino».

Nessuno tocchi Guizzino

guizzinoMercoledì 24 giugno 2015, una circolare del neo sindaco del Comune di Venezia, Luigi Brugnaro, ordina alle scuole «di voler raccogliere i libri “gender”, genitore 1 e genitore 2, consegnati durante l’anno scolastico e prepararli al fine del ritiro che avverrà al più presto da parte di un incaricato». Si tratta di tutti quei libri per bambini che toccano il tema della diversità, e in particolare della diversità di genere (ma per capire meglio che cosa si cela dietro questa fantomatica etichetta di “gender”, genitore 1 e genitore 2, si legga questo breve articolo di Chiara Lalli ). Così facendo, Brugnaro annulla il progetto avviato dalla giunta precedente Orsoni attraverso l’allora delegata ai Diritti civili e alla lotta per le discriminazioni, Camilla Seibezzi, che aveva portato all’inizio del 2014 all’acquisto di oltre mille libri destinati alle scuole materne e d’infanzia del territorio di Venezia (dieci titoli per i nidi, trentanove per le scuola dell’infanzia: si veda qui la descrizione del progetto Leggere senza stereotipi: «un progetto di SCOSSE per creare un archivio bibliografico che proponga visioni dei generi sessuali, e dei relativi ruoli, libere da stereotipi (nelle attività quotidiane, nelle relazioni, in famiglia e nella società)»), per una spesa di circa diecimila euro. La motivazione addotta da Brugnaro, secondo quanto riportano diversi quotidiani, è questa: «sono temi che non devono riguardare i bambini, materie da lasciare ai loro genitori, nella piena libertà di scelte degli adulti».

La decisione del sindaco crea immediatamente reazioni forti e contrastanti: dagli elettori della nuova giunta si solleva una salva di applausi, mentre da chi si occupa di educazione e formazione un po’ meno; anzi, si solleva una nube nera di preoccupazione. Sul primo fronte, i commenti che si leggono su alcuni forum di discussione assumono toni trionfalistici. Eccone qualche esempio (ovviamente tutti nascosti da impenetrabili nickname): «FINALMENTE UN SINDACO, IL SIGNOR LUIGI BRUGNARO, CHE A VENEZIA SI OCCUPA ATTIVAMENTE DELL’EDUCAZIONE DEI NOSTRI FIGLI»; «BRAVISSIMO. A CASA LORO LIBERI DI INSEGNARE QUELLO CHE VOGLIONO MA NELLE SCUOLE PER IL RISPETTO DEI BAMBINI DI TUTTI NON SI DEVE INSEGNARE QUELLO CHE UNA MINORANZA VUOLE FAR DIVENTARE MAGGIORANZA CHE NON ESISTE»; qualcuno ha persino un sussulto di roboante retorica: «Un raggio di luce nella fetida nebbia che circonda la nostra società, devastata dalle sporche ideologie di sinistra».

Dietro questi e altri commenti, bisogna indagare un po’, dunque facciamolo: tra chi per lo meno non si nasconde dietro nickname, una signora dalla punteggiatura incerta scrive «Complimenti al sindaco speriamo che lo seguano in tanti», considerazione che si espone al commento di un’altra utente del blog: «Ma li conoscete questi libri? C’è da morir dal ridere». Infatti. O dal piangere, a ben guardare. Già, perché una delle cose che più agghiaccia di tutta le vicenda è proprio l’ennesima prova dell’ottuso ossequio del popolo di Internet cha approva beceramente senza conoscere ciò di cui si sta parlando. O approva semplicemente per partito (politico) preso: tutto ciò che arriva dall’altra sponda (politica) è materia escrementizia, e dunque è giusto sputarci sopra. A prescindere.

Un’approvazione cieca e ottusa, totalmente a-critica, che mi fa tornare alla mente le recenti parole di Umberto Eco, secondo il quale la rete e i social network danno “il diritto di parola a legioni di imbecilli, i quali prima parlavano solo al bar, dopo due o tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società”. Ammorbidendo un po’ i toni, potremmo dire di ignoranti, nel senso etimologico della parola (ignorante è ‘colui che ignora, che non sa’), dunque senza offese sulla presunta menomazione intellettiva delle legioni citate da Eco. Semplicemente, persone che non sanno. Non sanno di che libri si sta parlando. E la colpa è anche della stampa (online come di carta), che, già nel 2014, ai tempi dell’iniziativa promossa dalla giunta Orsoni (e di nuovo oggi), aveva sintetizzato il contenuto della lista con titoli come “Le fiabe gay entrano a scuola”. Sintesi scorretta da almeno due punti di vista: i libri inseriti nella lista (che potete consultare qui) non sono fiabe (ma albi illustrati “moderni”) e, tra i quarantanove titoli presenti, solo una minoranza (quattro o cinque) trattano effettivamente, in modo più o meno implicito, temi che toccano la sfera dell’omosessualità.

lista_libri_proibitiDirò di più: chi si intende di letteratura per l’infanzia, e nella fattispecie di albi illustrati, sa bene che catalogare tutti questi titoli come “fiabe gay” non soltanto è una forzatura, ma, a ben guardare, una colossale falsità (imbecillità, direbbe Eco): tra i quarantanove titoli della lista troviamo alcuni classici di questo genere narrativo, come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni (scritto nel 1959!): provate a leggerlo ai bambini e vedrete se non parleranno di una storia che celebra il valore dell’amicizia (e non certo di famiglie “diverse” o di omosessualità); o come Dov’è la mia mamma di Julia Donaldson, la storia di una scimmietta che non trova più la sua mamma e la cerca in lungo e in largo per tutta la giungla, per poi ritrovarla dopo un passaggio tra le braccia del papà (racconto “gender”? ma non è, in fondo, la stessa storia raccontata da Edmondo De Amicis in Cuore, nell’episodio Dagli Appennini alle Ande? cioè da un libro tra i più usati nell’educazione scolastica di stampo tradizionale, e solo di recente uscito un po’ dalle nostre aule?); o come Guizzino, ancora di Leo Lionni, la storia di un pesciolino nero che, dopo essersi salvato dall’attacco di un grande pesce che si porta via tutti i suoi simili rossi, raggiunge un’altra comunità di pesciolini rossi e insegna loro a nuotare tutti insieme, disponendosi a forma di enorme pesce, per potersi salvare dagli attacchi dei tonni (anche qui chiedete ai bambini: vi diranno una morale del tipo “l’unione fa la forza”; ma probabilmente la storia dà fastidio a qualche adulto per il colore rosso dei pesci “comunisti”, giacché di cenni “gender” non se ne vede manco l’ombra).

E l’elenco di esempi potrebbe continuare (davvero, non scherzo: per ogni titolo si potrebbe fare un discorso simile), ma penso che anche questi pochi siano sufficienti a dimostrare che di lista di “favole gay” non si può proprio parlare. E dovrebbero anche dimostrare che la decisione di privare le scuole di questi libri è un atto da regime totalitario, da censura, da indice dei libri proibiti; dunque un reato contro la libertà di espressione e di pensiero, perpetrato da chi con ogni probabilità non ha mai aperto questi libri né sentito i bambini discutere in modo critico (nel senso di “costruttivo” e consapevole) dopo aver ascoltato o letto uno di questi albi. E i genitori la smettano di annuire meccanicamente senza sapere di che cosa si sta parlando!

Qualche considerazione conclusiva, a partire da una domanda: che cosa succede togliendo questi libri dalle scuole? Succede che i bambini perderanno un’occasione di vera educazione; perderanno la ghiotta opportunità di confrontarsi con temi e storie che innescano la riflessione, portando le loro giovani menti non verso l’omologazione culturale, ma verso la consapevolezza. In questo caso, anche verso la consapevolezza della diversità; ma, badate bene, della diversità in senso lato: non solo di gender, ma di abilità fisiche, di gusti e preferenze personali, di naturali inclinazioni verso una o l’altra passione, di comportamento, di colore della pelle e tanto altro ancora. Decisioni come queste sono tipiche di epoche in cui chi governa mira non tanto a costruire teste che pensano da sole, ma teste che annuiscono senza pensare, accettando il pensiero dominante e fuggendo da ogni “deviazione”. Decisioni come queste ignorano che i bambini nascono scevri dai pregiudizi derivanti dagli stereotipi e dai luoghi comuni; pregiudizi che vengono invece imposti dalla società, sin dai primi anni di vita. Un bambino che a casa sente frasi del tipo “i gay sono malati” (di solito, per la verità, espressa con parole forti come “finocchi” o “froci” o altre simili) è un bambino destinato a ripetere da grande le stesse cose (così come ripeterà analoghi pre-giudizi sugli immigrati, per citare un tema assai attuale). Prima, però, è un bambino destinato a ghettizzare un suo coetaneo che gli adulti vorrebbero etichettare come appartenente a quella fumosa categoria del “diverso”, ignorando che le classi degli asili e delle scuole non sono più quelle di qualche decennio fa: tra i nostri allievi, giusto per fare qualche esempio, ci sono figli di genitori divorziati, di genitori single, di genitori che li hanno adottati, figli di immigrati che non credono nello stesso Dio dei cattolici ecc. Imponendo l’uso di sole storie in linea con la “tradizione” (faccio fatica a capire quali sono: forse quelle che si usavano un secolo fa, quelle che insegnavano con toni moralistici che a comportarsi in modo “divergente” si finiva molto male?), non si fa altro che inoculare nel cuore dei giovani la convinzione ottusa che il nemico è chi non è come noi, costruendo dunque l’avversione per il “diverso” (e, forse, la categoria stessa della “diversità”); e di qui agli estremismi il passo è ahimè breve.

Certo, alcuni vogliono proprio che succeda così. Ma non la chiamino, per favore, “educazione”; e non dicano che la scuola deve lasciare fare alle famiglie: la più importante delle istituzioni (e, purtroppo, considerando che cosa succede in Italia, la più bistrattata fra tutte, anche dalla politica) non può venire meno al dovere di educare e di dare la possibilità ai bambini di elaborare un proprio pensiero. Nel migliore dei casi, demandare alle famiglie il compito di affrontare temi delicati potrebbe funzionare nei nuclei familiari dove la discussione critica è di casa, dove i libri non sono solo un arredo (o una mancanza); ma oggi le famiglie che rispondono a queste caratteristiche sono esse stesse un’eccezione, una “diversità” nel mucchio. Dunque ben vengano i libri portati dalla scuola, scelti con attenzione da esperti e proposti con discernimento da docenti che sanno fare il loro mestiere e che conoscono gli allievi che hanno di fronte.

Concludo questo lungo intervento con una proposta, peraltro già avanzata da qualcuno sui social network o in rete: dal momento che la lista dei libri messi all’indice è indubbiamente di grande valore, la si può prendere come una ricca lista della spesa. Ma non chiamatela lista di favole gay, per favore. Comprateli, questi libri, o almeno andate in libreria o in biblioteca a sfogliarli. Giusto per capire di che cosa si sta parlando, se non li conoscete. Oppure, se siete educatori, leggeteli pubblicamente. Contro il silenzio, contro l’ignoranza, contro le teste che annuiscono senza sapere. Perché di Guizzino non si può e non si deve avere paura.